< Umano troppo umano

di Elio Grazioli e Riccardo Panattoni

in Elio Grazioli, Riccardo Panattoni (a cura di), Fotografia Europea. Umano troppo umano, Damiani, Bologna 2008

[In questi ultimi anni si è parlato tantissimo del corpo, sia per un rinnovato culto del fisico, sia per la sua dissoluzione nell’immaginario, sia infine per le tematiche legate al cosiddetto “postumano” e “postorganico”.
Dalle velina e dai gaudenti Lucignoli, da Second life alla chirurgia estetica e alle biotecnologie, il corpo appare come un oggetto plastico e modellabile, strumento di piacere e di performance, munito di protesi e di integrazioni. Ma si tratta effettivamente di un corpo o piuttosto dell’idea attraverso cui immaginarlo e di conseguenza immaginare se stessi?
Contemporaneamente nuove malattie l’hanno torturato e ucciso, malattie cariche a loro volta di una forte simbolicità. Nuove armi, nuove guerre, nuove miserie hanno fatto altrettanto, mettendoci sotto gli occhi un corpo tormentato, consunto, straziato, al limite dell’inguardabile come le immagini non ci avevano mail mostrato.
Da un’altra parte ancora, il corpo viene assunto come ciò che deve essere guardato oggettivamente, con distacco scientifico, come oggetto senza vita e umanità. Corpo inerte, cadavere sotto i ferri del medico legale che tante serie televisive ci hanno riproposto come eroe attuale. Sguardo che non per niente si sente libero di entrare dentro il corpo non una disinvoltura sospetta.
La fotografia ha registrato e talvolta anticipato tutte queste tematiche nel suo modo peculiare: realismo classico da reportage, simbolismo attualizzato, manipolazione diretta dell’immagine e creazione di corpi impossibili o futuristicamente immaginabili. Rispetto a tutto ciò che cosa rimane del corpo? Del corpo rappresentato? Che ne è del corpo dell’immagine e dell’immagine fotografica in particolare?
Identificata a una pelle, a un organo, a un corpo di donna, manipolata in tutti i modi fin dalle prime avanguardie storiche, l’immagine fotografica ha un suo corpo, invisibile il più delle volte nella sua materialità. D’altronde che consistenza, che spessore ha un’immagine? Eppure ogni volta che la si guarda si guarda sempre anche il suo corpo, anche senza rendersene conto. Certo è un corpo che è cambiato quanto il corpo umano: nuove tecniche, nuovi materiali, nuovi supporti, fino, di nuovo, all’apparente immaterialità della digitalizzazione.
Anche a questo ci hanno abituato ormai una quantità di esposizioni e libri che ne hanno sondato tutti gli aspetti. Rimangono allora riferimenti capaci di sollevare ulteriori questioni altrettanto attuali, sia sul corpo che sull’immagine fotografica?
Anziché rivolgere la nostra attenzione all’immagine del corpo o di corpi immaginari o futuribili, ci è interessato l’aspetto più concreto del corpo, quello sensoriale, in particolare multisensoriale e tridimensionale. La fotografia a cui ci siamo rifatti è una fotografia che sollecita gli altri sensi, quello tattile in particolare, che sfonda la bidimensionalità modernista del modello pittorico per riferirsi invece all’effetto concreto, fino al limite iperrealista della scultura. Tecnicamente si chiama effetto “aptico”, effetto per cui un’immagine sollecita il senso del tatto attraverso quello della vista, che può essere inteso in due modi complementari: uno come un invito, uno stimolo a toccare, a interagire, a fare; l’altro come presenza attiva dell’autore dentro l’immagine, sua implicazione, sua intromissione. Questo può essere ottenuto attraverso un particolare modo di rappresentare o attraverso un particolare trattamento dell’immagine stessa, del suo corpo appunto.
Tutto ciò comporta concezioni particolari dell’immagine e della fotografia, concezioni, per molti versi, poco frequentate, se non opposte, a quelle privilegiate sia dal modernismo, difensore del modello visivo puro, della bidimensionalità, della distanza metafisica, sia del postmodernismo, che ha risolto la realtà in immagine, in simulacro, in virtualità, in flusso. Per questo la proposta che qui avanziamo ci sembra foriera di considerazioni attuali ma inconsuete, interessanti per sondare ambiti abitualmente meno frequentati.]
Come primo gesto abbiamo così pensato di ricostruire, alle spalle dell’attualità, alcuni rimandi “storici” per campionature pertinenti, capaci di esemplificare nel concreto dell’opera un percorso possibile recuperando figure famose ma eccentriche rispetto alle riflessioni più diffuse. La abbiamo individuate in cinque autori europei di cinque periodi e contesti diversi, in grado di offrire le principali sfaccettature – nonché, in alcuni casi, una riflessione teorica di prima mano – del tema da lui scelto. Sono Raul Hausmann, dadaista della prima ora, antifotografo e cultore del fotomontaggio, ma anche autore di splendidi nudi all’insegna di una “sensorialità eccentrica”, come lui stesso l’ha chiamata e teorizzata; Wols, famoso esponente dell’Informale, ma molto meno noto per le sue fotografie delle materie inorganiche più disparate, versione aptica del cosiddetto “informe”; Paolo Gioli, grande reinventore della sperimentazione come corpo a corpo tra autore, modello, materiali e macchina fotografica; Jorge Molder, all’apparenza più “concettuale” e “freddo”, ma in realtà preso da una gestualità in grado di additare una dimensione altra: quella dell’ombra e dell’ignoto; ombra e ignoto a cui, in un altro senso, approdano inaspettatamente anche Pierre et Gilles, campioni dell’estetica postmoderna di cui danno una versione tanto felice e ideale quanto iperrealistica e tridimensionale.
Offrendoci in questo caso una visione però del tutto inaspettata, è il loro recente approdo a un’immagine fatta di riflessi di corpi in specchi deformanti, conturbane e perturbante qunto non mai.
[Su queste premesse abbiamo scelto, riprendendo l’impostazione già avviata per la scorsa edizione, alcuni progetti di fotografi italiani la cui opera ci è parsa arricchire in maniera determinante l’indagine sul corpo qui individuata.In questa sezione abbiamo inoltre fatto spazio, abbiamo in altri termini aperto dei varchi, attraverso le immagini di tre importanti autori come Edward Steichen, Bettina Rheims e Luigi Ghirri. In continuità con l’impostazione di “Fotografia Europea” abbiamo inoltre invitato saggisti e scrittori a intervenire sul tema, nonché, punto di forza di questa iniziativa, quattro fotografi, nessuno dei quali italiano, a creare una produzione nuova specificatamente per Reggio Emilia.
Della grande retrospettiva, a cura di Sandro Parmiggiani, dedicata a Edward Steichen, ci è interessato in particolare, nel nostro contesto, la fotografia di moda e di personalità famose, perché in questi due ambiti la fotografia si avvicina quasi di necessità alla visione che proponiamo ed esalta scultoreamente questi corpi “altri” che sono quelli professionali delle modelle o quelli mitici dei “divi”, corpi schermo su cui si proiettano i nostri sogni e desideri immaginari. Tema ripreso da Bettina Rheims, una delle più famose fotografe di star del momento, che in questa serie intitolata Eroine gioca a rovesciare la situazione e presenta le stesse persone famose  in vesti non professionali, in momenti e atteggiamenti non aulici, ma quotidiani, non “truccate” ma lasciando apparire i segni che il corpo ci trasmette.
La stesso tema è affrontato, anche se in un certo senso a contrario, da Vanni Codeluppi: quali corpi mostra ora la pubblicità, la comunicazione, il mondo della carta patinata? Come si rispecchia, su questa visione per certi versi impalpabile, la percezione del corpo che abbiamo? Corpi (im)puri, corpi esposti, corpi che cercano l’esibizione, la “visibilità”, esasperando ad ogni livello quella che Codeluppi chiama la “vetrinizzazione”, il volersi mettere comunque e a ogni costo in vetrina.
Pur senza collocarli direttamente al centro dei suoi lavori, anche Fabio Donato indaga l’intrusione dei “corpi di carta” della pubblicità nel paesaggio e nella vita urbani, cogliendo in particolare i giochi di sguardi che essi instaurano, le “posizioni” che inducono a chi li guarda e se ne sente, in qualche modo, a sua volta riguardato. “Posizioni” che lo scrittore Alberto Manco rimette in gioco nel suo testo letterario, primo esempio qui di quella collaborazione-intreccio tre scrittura e immagine fotografica che è uno dei nodi su cui “Fotografia Europea” ha impostato una delle sue modalità portanti.
Altri “corpi di carta” sono quelli del terzo varco a cui ci riferivamo, quello aperto con le immagini di Luigi Ghirri, che ha rifotografato immagini di riviste, cortocircuitando corpo e fotografia come solo lui ha saputo fare. Aprendo invece di chiudere, moltiplicando corpi e vita anziché giocare la carte della sostituzione simulacrale, dando così corpo e vita alla fotografia stessa.
“Corpi di carta” sono anche quelli rifotografati da Patrizio Esposito. Qui a ridar vita è l’uso speciale che Esposito fa della polaroid, che dà una qualità particolare all’immagine, una sorta di pelle, potremmo dire, per cui i corpi ritratti sembra si lascino impressionare più come segni tattili di se stessi, che per definire la nitidezza dei loro contorni. A contrappunto delle polaroid, Esposito ha inoltre voluto che scorressero su due monitor fotografie e video amatoriali dal Sahara Occidentale.
Anche questo complemento e intreccio dell’esposizione fotografica con il video, conta qui ricordarlo, è una strada che “Fotografia Europea” coltiva con particolare interesse, sia perché i due medium espressivi sono sempre più spesso combinati dagli artisti stessi, sia perché il passaggio o la dialettica tra immagine ferma e immagine in movimento è oggi, sotto molti aspetti, un tema in aggirabile.
Jarno Zaffelli, dal canto suo, prende alla lettera, propriamente in scala 1:1, le questioni del rapporto tra corpo e immagine: ne svolge infatti interamente uno restituendo fotograficamente in una mappa di tutta la sua pelle. L’immagine fotografica è pelle e la rappresentazione fotografica è iperrealtà. In questo modo le questioni si riaprono e rilanciano. Che ne è del nostro sguardo e del nostro tatto, del senso delle pelle preso in tutti i sensi?
Per Bruno Cattani il corpo, la sua immagine, sembra prendere forma come in un “dialogo”. I suoi corpi di statue, così fotografati, non sono più semplicemente di pietra, ma la carne in essi dialoga con il marmo, vi traspare, vi si rende indiscernibile, inseparabile: inganno ottico, luminoso, che diventa paradossale incarnazione dell’immagine. A scriverne sono anche qui degli scrittori, una coppia, come si noterà a sua volta in un duplice dialogo, sia con Cattani sia tra di loro.
I rapporti tra immagine e corpo sono dunque ben complessi, da sempre, certo, ma in maniera rinnovata oggi. Che dire infatti di fotografie di corpi immaginari come le sirene di Elio Mazzacane, direttamente uscite dal romanzo omonimo di Laura Pugno? Immagini nate dunque da parole, tanto più interessanti per noi perché il testo presentato qui da Pugno è in realtà già impegnato nell’attribuzione tattile della particolare sostanza corporea di questi esseri mitologici, antichi, forse preumani, da lei proiettati in un futuro “troppo umano”.
I bambini e gli anziani non sono certo sirene, ma hanno comunque corpi particolari, un troppo presto e un troppo tardi, potremmo dire, accompagna i loro corpi rispetto a come li abbiamo più abitualmente in mente. Nicola Vinci – qui impegnato su nostro invito in un’operazione che coinvolge direttamente un quartiere di Reggio Emilia, questa volta il quartiere Gardenia, come già lo scorso anni Giorgio Barrera con il quartiere Rosta Nuova – sa trarre e valorizzare tutti gli effetti di “inquietante estraneità” che questi corpi, e questi spazi-scene, possiedono.
[In questa sezione – che abbiamo voluto intitolare “immagini di corpi” – non poteva mancare un inevitabile paradosso: quello dei corpi assenti. Benedetta Alfieri fotografa “arredi di corpi”, oggetti legati al corpo ma mostrati senza di esso, riprendendo una forma e delle tracce come da esso dimenticate. Anche la fotografia è come questi oggetti, e proprio in relazione ad un corpo che non c’è. Ma il fascino aggiuntivo di queste immagini è dato forse ancor più dallo scarto, dalla sottrazione, dal lavoro di differenza e insieme di pulizia che l’assenza costringe a fare quando la si vuole mostrare in immagine.]
Una rassegna di film documentari su grandi fotografi che hanno segnato un passaggio determinante dal modo moderno a quello postmoderno di occuparsi e di rappresentare il corpo è stata messa a punto da Nicola Dusi, come a complemento del panorama che abbiamo descritto. Per noi è l’invito a rileggere, attraverso la nostra proposta, autori come Robert Mapplethorpe, Nan Goldin, Cindy Sherman, Joel-Peter Witkin, Jenny Saville, John Coplans.
Quali implicazioni siano in gioco in generale nel rapporto tra immagine e corpo ce lo siamo fatto raccontare anche da Umberto Galimberti. Il suo testo accompagna il lettore direttamente all’interno di questo rapporto, come in un viaggio là dove l’immagine corporea non coincide mai semplicemente con l’avere coscienza del proprio corpo. Inesorabilmente sempre al di qua o al di là della sua immagine, il corpo in realtà non è mai in grado di coglierla e così continuamente non può che tendere a costruirsela attraverso uno schema. A partire da questa sfasatura Galimberti ripercorre nascita, sviluppo e influenze esterne di quella che appunto si chiama “immagine corporea”.
A seguire gli interventi di due scrittori come Vitaliano Trevisan e Walter Siti.
Entrambi mettono in atto una scrittura che è a sua volta corpo. Ossessiva quella di Trevisan, avvolta dalla presenza dei corpi della famiglia che tolgono il respiro, tipico luogo di una patologia criminale nascosta, custodita, come criterio portante della propria apparente normalità.
Centrata invece sull’ossessione di un altro corpo, di quel solo corpo che le immagini che accompagnano il testo ci mostrano, quella di Walter Siti. E’ notevole come lo sguardo, assecondato dalla scrittura, si posi su quelle immagini cogliendo al contempo la potenza di un corpo da culturista e la morbida fragilità abbandonata di quella sconsolata nudità. Ossessione dello sguardo che la scrittura accarezza rendendola capace di distinguersi dalla perversione, dalla passione e dall’amore.
Giovanni De Luna parte invece dal particolare statuto della fotografia come “fonte” storica, per considerare come essa abbia contribuito a ridisegnare alcuni concetti basilari, non ultimi, quei casi limite che sono i corpi delle vittime della violenza, della deportazione, i corpi in coma, perfino i corpi sulla soglia tra la vita e la morte.
A completare questa sezione non poteva mancare il contributo di uno studioso dalle idee originali su mondi apparentemente “senza corpo”, quali sono il virtuale, l’ipertecnologia, la digitalità che ai più sembra minacciare anche la nostra stessa sensorialità di utenti. Derrick de Kerckhove, nell’intervista che gli abbiamo fatto, sostiene esattamente l’opposto: la tecnologia esalta i sensi, il tatto in particolare, nella sua forma del “contatto”, della “connessione”, della “realtà” della nostra penetrazione del mondo “secondo”.
Alla fine di questo percorso i quattro fotografi europei invitati a confrontarsi ex novo con i dati e l’impostazione del tema proposto. Li abbiamo scelti perché rispecchiano nella loro attività gli aspetti fondamentali del nostro modo di confrontare la fotografia al corpo. Erwin Olaf estrae per noi dalla fotografia di moda quegli aspetti di sensorialità e iperrealismo che egli sa far diventare arte grazie a un’intelligenza dello sguardo; Aneta Grzaszykowska porta gli effetti tridimensionali e il rimando alla scultura fino ad esiti propriamente “acrobatici”; Ann-Sofi Sidén è in questo contesto quella che ne analizza invece gli esiti sociali, con una finezza però che va al di là della sociologia e una riflessione formale, meramente estetica; Antoine D’Agata, dal canto suo, rilancia l’aspetto “crudele” del corpo e dell’immagine, entra direttamente in scena, ne fa un’esperienza esistenziale di resistenza alla dimensione anestetizzante del cinismo professionale.
Ancora una volta, esattamente come lo scorso anno, nessuno di questi artisti ha subito l’influenza di quelli che abbiamo indicato come esempi storici o “precedenti”, ma i rimandi e gli intrecci appaiono non solo possibili, ma estremamente fruttuosi. Effetti che ci piacerebbe riuscire ad innescare e a lasciare a ogni lettore grazie all’insieme della manifestazione “Fotografia Europea” di cui questo volume dà conto.

Reggio Emilia, aprile 2008
© Elio Grazioli e Riccardo Panattoni