È difficile non cadere nella ripetizione quando si scrive su un argomento già studiato come è Album bianco1 di Benedetta Alfieri, esposto alla Skin Gallery. Numerosi sono, infatti, i contributi che critici, studiosi e filosofi hanno dedicato a questo singolare lavoro. Un lavoro fotografico nel quale la fotografia non è certo il fine della ricerca, piuttosto il mezzo, attraverso il quale porsi di fronte a particolari frangenti della realtà in maniera oggettiva. In tal senso è possibile scorgere dei fili rossi tra la sua ricerca e alcune ricerche concettuali degli anni Sessanta e Settanta e si pensi in tal senso a Alle Kleider einer Frau (1974), l’inventario di abiti di una signora di Hans Peter Feldman. Ma là gli abiti conservavano le loro caratteristiche di abiti, appesi alle grucce, non avevano una vita propria, si trattava di un’archiviazione. Qui la cosa è diversa: quelli di Alfieri sono ritratti di capi di abbigliamento, di calzature, presenze assenti di chi li ha indossati o calzati. E questo non è solo un archivio della memoria, è qualcosa di diverso, di più complesso. Anche se, ovviamente, la memoria c’entra: eccome.
Alfieri dona, attraverso le sue immagini fotografiche, in scala 1:1, una vita autonoma agli oggetti. Di volta in volta sono protagoniste dei suoi lavori le diverse parti frammentate del corpo assente. Per un’operazione come questa il medium fotografico, in grado di registrare la realtà oggettivamente, è in effetti imprescindibile. Tutti i momenti della ricerca sono strettamente legati gli uni agli altri con un’esplicita coerenza visiva e di intenti.
I protagonisti delle immagini sono collegati alla contingenza sociale, geografica, storica dalla quale provengono: in India, in Africa le cose sarebbero profondamente diverse2. Là gli abiti non sono di foggia antropomorfa, sono piuttosto grandi teli che si adattano al corpo di chi deve vestirsi. Una volta vuoti se ne coglie soprattutto il tessuto e non certo la fattura, il modello. Da noi l’abito ha una foggia, un taglio, una chiara personalità. Siamo noi che ci dobbiamo adattare ad esso e non viceversa.
Il suo è, come già detto, un modo di approcciarsi a un’indagine di tipo sociale, pur senza declamazioni. In tal senso il privato si fa pubblico senza esibizioni. Così l’atteggiamento tranquillo, pacato, riflessivo di Benedetta. Il suo è un lavoro privo di sensazionalismi che parte da quanto è vicino per giungere alla profondità delle cose.
Come per il più recente lavoro sui libri, che qui non è in mostra. Il suo è un lavoro sul significato dell’operazione fotografica, sulla sua indicalità, sul suo essere indice nell’accezione semiotica della lettura. Si tratta di un’indagine profonda, frutto di studio, di osservazione, di penetrazione, che non è trovata. Si parte da una registrazione di un oggetto, un abito per giungere a una presupposta presenza. Un abito del quale Alfieri conosce la storia o almeno la conosce in parte e che assume per gli occhi di chi guarda implicazioni, pensieri diversi. L’opera e quanto essa riporta vivono di vita propria, una volta mostrata. Sono lavori che lasciano aperte molte domande. Chi? Come? Dove? I suoi sono
ritratti senza presenze, ritratti aperti.
A tal proposito Elisa Coco ha scritto: Attraverso il suo lavoro artistico, Benedetta Alfieri ci suggerisce, con la leggerezza ed essenzialità del suo tratto fotografico, che il corpo si smaterializza, ma senza eclissarsi totalmente: di esso rimane infatti la sagoma disegnata nello spazio da un vestito, la pelle sociale che il corpo abita, lo “spazio tra” che separa e al contempo collega il corpo e il mondo.
[…] L’identità di questo corpo incorporeo, che esiste, nonostante la sua assenza, nell’abito che essa abita, si costituisce ogni volta come movimento di aggregazione e disgregazione che l’occhio eserciterà tra l’abito e il modulo o pattern decorativo dell’abito stesso3.
La serie di questi lavori nasce, inizialmente, come omaggio a una persona a lei cara. E il legame con questa persona sono gli oggetti che le appartengono.
Attraverso gli oggetti appartenuti a una persona è possibile evocarla, ricostruirne parte del cammino. Reliquario laico? Sì, ma privo di qualsiasi intento agiografico. Lo spirito è quello dell’Inventario di oggetti appartenuti a una vecchia signora di Baden Baden di Christian Boltanski. In questa serie di lavori è possibile leggere la presenza, la traccia di altro, di aspetti che vanno ben oltre la mera immagine. La sparizione del corpo, del genere umano che troviamo in certi libri di Guido Morselli, autore amatissimo.
E quindi le scarpe che ancora di più restituiscono l’idea di chi le ha indossate, ne registrano il peso, la camminata, in certi casi la postura. La scarpa è più oggetto rispetto al vestito e a maggior ragione ci trasmette notizie di appartenenza, prende la forma di chi l’ha utilizzata – non a caso diventano più comode quando sono maggiormente usurate – a differenza del vestito, che una volta disabitato, ritorna della sua forma originale, è più aereo, è qui come un fantasma. Le scarpe sono più vive, anche per il materiale di cui sono fatte: pelle, stoffa o materiali sintetici soggetti a una sorta di elasticità. Ma la scarpa è un oggetto chiuso, più tridimensionale, che qui assume una veste scultorea. Racchiude più informazioni, ma è anche più misteriosa.
In mostra sono anche i ritratti dei guanti. È il fissare e il riportare un gesto naturale, quello di confrontare le proprie mani con quelle degli altri che tutti abbiamo fatto. Ci troviamo ancora una volta di fronte a una sorta di catalogazione. Un primo piano sempre in scala 1:1.
Il lavoro qui esposto di Benedetta Alfieri è certo un lavoro sul corpo – è indubbio – anche se è proprio il corpo a essere assente. È, tuttavia, soprattutto un lavoro di ricostruzione non solo della memoria, ma anche di storie possibili, senza presentare aspetti dichiaratamente narrativi. Storie di gente comune. Una piccola macchia tra una piega e l’altra evoca situazioni, frangenti esistenziali. Non importa di chi. La memoria personale si fa universale.
Inoltre tra scarpe, abiti, oggetti, guanti è sempre presente anche lei: nessuna dichiarazione esplicita, solo un passaggio.
Tutte le fotografie in mostra sono frontali, viene così a crearsi un dialogo con gli oggetti, è un confronto immediato. Lo spettatore è introdotto nel vivo della scena senza convenevoli. Non ci sono trucchi. Il lavoro è diretto. Solo un’imposizione: il punto di vista, che ci obbliga di prendere atto di quanto vediamo, proprio come Benedetta Alfieri ha fatto prima di noi, ma ogni volta è una storia diversa.
Milano, maggio 2010
© Angela Madesani