< Platone e le bianche apparenze di Benedetta Alfieri

di Francesca Rigotti

in Enrico Gusella (a cura di), Benedetta Alfieri. Bianche apparenze, Centro Nazionale di Fotografia, Padova 2007

Facciamo un tuffo nella metafisica classica: per l’ontologia platonica il vero essere era il mondo delle idee, ovvero il mondo nel quale abitano le forme permanenti e stabili del pensiero, gli archetipi che permettono di nominare, classificare e pensare gli oggetti del mondo fisico. Le idee sono i modelli delle creature e delle cose, che di esse sono copie imperfette. Uno dei luoghi classici di questa concezione si trova nel libro X della Repubblica di Platone [595c-597e], dove l’esempio prescelto dal filosofo è il letto. Dialogando con Glaucone, Socrate individua tre tipi di letto. Il primo è la forma naturale del letto, il letto creato da un dio, l’idea di letto; il secondo è il letto fabbricato dal falegname, un letto particolare tra gli innumerevoli che si possono costruire. L’ultimo è il letto riprodotto dal pittore imitando il letto del falegname. Mentre il primo letto, quello creato dal dio, equivale all’essenza unica e perfetta di ogni letto passato, presente e futuro perché corrisponde alla lettità del letto, all’essere letto del letto, il letto del falegname si discosta di un grado da quella e il letto del pittore di ben due gradi. Questa concezione serve a Platone per condannare la pittura nel suo allontanarsi di molto dalla realtà e dal vero essere di ciò che è letto, cioè la specie immutabile del letto ideale.
Possiamo immaginare di illustrare la tripartizione platonica (l’idea di letto, il letto costruito dall’artigiano, la riproduzione del letto del falegname fatta dal pittore) con il quadro di un artista concettuale, Joseph Kosuth. Nel 1965 Kosuth, alla ricerca di un’arte fondata sul pensiero, realizzò l’opera Una e tre sedie – rielaborandola successivamente in varie interpretazioni – che comprendeva la definizione di sedia ritagliata da un dizionario, una vera sedia, la sua riproduzione fotografica.

Platone e le bianche appare

Che cosa fa qui Kosuth se non mettere in pittura l’ontologia platonica1, coi suoi tre livelli o gradi, per individuare il concetto di sedia, l’eidos, l’idea, in ogni caso la sua invariante essenziale, quella che fa sì che una sedia sia una sedia e un letto un letto, facendola affiancare dalla realizzazione della sedia e infine dalla sua riproduzione artistica?
Continuiamo col ragionamento prendendo un’opera d’arte fotografica di Benedetta Alfieri: per esempio i sandali rosa2. A che livello o grado di realtà si possono collocare nel discorso platonico? Non al primo livello, quello dell’idea di sandali (calzari aperti, formati da una semplice suola attaccata al piede da strisce di cuoio). Non al secondo livello, quello della riproduzione dell’idea di sandalo fabbricato dal ciabattino (se si tratta di un manufatto artigianale, ma lo stesso vale per il prodotto industriale di serie). Al terzo livello dunque apparterranno i sandali fotografati, al livello quindi della riproduzione artistica dell’oggetto compiuta dal pittore, copia di copia dell’originale. Ed è noto che la concezione della copia serve a Platone per condannare la pittura nel suo allontanarsi di ben due gradi dalla realtà e dal vero essere di ciò che è letto e sandalo.
I sandali di Benedetta Alfieri sono però un po’ diversi dalle riproduzioni pittoriche classiche, tra le quali si potrebbero annoverare le scarpe di van Gogh, tra le più celebri calzature tanto dell’arte quanto della filosofia, per l’interpretazione che ne diede Heidegger3. I sandali di Alfieri sono fotografie di sandali, sono copie dunque, ma sono copie reali che presentano in tutto e per tutto le dimensioni dell’oggetto reale.
Copie reali. Che cos’è questo ossimoro? esclamerebbe indignato Platone, che non amava, oltre all’arte figurativa, nemmeno la retorica. Questa è una contraddizione bella e buona, continuerebbe il filosofo: una copia è una copia, la realtà (l’idea) è la realtà. Parlare di copie reali sarebbe come dire latte nero, vergine madre, urlo silenzioso. Ora, a parte che queste espressioni e immagini furono usate da grandi poeti e pittori, Celan, Dante, Munch, e non sono così disprezzabili benché ossimoriche, non le sembra che l’oggetto proposto in maniera di copia reale (i sandali a grandezza naturale) – potremmo a nostra volta chiedere a Platone – appare più vero, in un certo modo più aderente al primo grado di realtà, quello ideale? Si potrebbe immaginare l’oggetto che è l’opera d’arte e che è costituito dal supporto di legno, dall’immagine dei sandali, dal vetro, come un’astrazione dalla solidità dell’oggetto e insieme come un ritorno alla materialità dell’oggetto? Come una copia di realtà coi caratteri sia della copia sia della realtà, tanto per mettere confusione in quella tripartizione così ben ordinata e temperata?
La proposta è audace, ma mi è stata suggerita proprio da queste immagini così particolari di abiti, guanti, scarpe e sandali, queste apparenze di cose che declamano la loro stessa ontologia, come se continuamente ripetessero: “siamo un paio di sandali, siamo un paio di sandali, siamo un paio di sandali”. Bianche apparenze, inoltre. Bianche perché poggiano su un fondo bianco o perché da tale fondo balzano fuori, o perché comunque circondate di color bianco liscio e compatto.
Un altro passo di Platone che si adegua all’interpretazione delle proprie opere fotografiche me lo ha suggerito la stessa autrice: si tratta del passo del libro VII della Repubblica [514a-d ] che descrive il momento in cui, nel mito (o metafora o analogia) della caverna, il prigioniero, improvvisamente sciolto dai legami, si gira non più a guardare le pallide ombre degli oggetti proiettate sul muro, bensì a fissare direttamente la luce. In quello stesso attimo l’abbagliamento gli impedirebbe di vedere gli oggetti perché il suo occhio è cieco di bianco, così lo vede Benedetta Alfieri che proprio quel bianco omogeneo e abbagliante cerca di riproporre nei fondi delle sue immagini, delle sue bianche apparenze. La luce della metafora di Platone che colpisce gli occhi del prigioniero liberato è la luce diretta del sole (quello della mythologie blanche di Derrida): è il calor bianco, la luce bianca emessa dai corpi a temperatura molto alta, nel momento dell’incandescenza, dal latino incandescere, diventare candido, infuocato al punto da presentare la superficie bianca e candidissima.
Nel calore di questo colore sorgono così gli oggetti a noi presenti, che ci stanno innanzi nello spazio (lat. ob-jectum, cosa posta dinanzi) e nel tempo (lat. praesens da prae-sum, che è dinanzi, da intendersi anche come dono, presente, cosa che è posta dinanzi a noi). Così l’oggetto/opera di Benedetta Alfieri si presenta a noi come un caso di Fidanzata Automatica, l’oggetto fisico-sociale-opera d’arte che finge di essere persona, secondo la bizzarra analogia proposta da Maurizio Ferraris nel suo ultimo volume4.  L’immagine della Fidanzata Automatica introdotta da Ferraris è ripresa da un esperimento mentale ideato da William James nel quale ci si chiede: un corpo privo di anima indistinguibile da una fanciulla che adempie a tutti i doveri femminili potrebbe essere considerato l’equivalente di una fanciulla dotata di coscienza? No, risponde James, perché non ci offrirebbe ciò che più d’ogni altra cosa desideriamo, cioè riconoscimento e ammirazione. L’ipotesi dunque, conclude James, non può essere presa per seria. Invece per Ferraris la cosa è seria, così seria da poter essere assunta quale descrizione di un fatto reale, l’opera d’arte. Come la Fidanzata Automatica, anche l’opera d’arte che finge di essere una persona suscita in noi sentimenti
ed emozioni, provoca gioia e piacere. Ma fingendo soltanto di essere persona senza esserlo, l’opera d’arte non è in grado di rispondere ai sentimenti suscitati benché essa li susciti e benché, nel caso di Benedetta Alfieri, essa ritragga oggetti dotati di una forte valenza affettiva, oggetti dei membri della famiglia, principalmente donne. Siamo noi osservatori a provare ammirazione, simpatia e riconoscimento, piacere, certo, sì, piacere di fronte alla bianca apparenza, in questo caso, mentre l’opera d’arte rimane lì bianca e apparente e incapace di parlare anche se, irosi come Michelangelo, dovessimo colpirla col martello.

Göttingen, dicembre 2007
© Francesca Rigotti