< Mappature sensibili

di Francesca Mila Nemni

in Benedetta Alfieri. Dammi il mio giorno, Centro Culturale Villa Soragna, Collecchio (PR)

Il corpo è elemento fondativo nella ricerca di Benedetta Alfieri eppure rimane ancora una volta il grande assente. Solo ad un certo punto, nel bel mezzo della narrazione, compaiono due ritratti, uno con lo sguardo rivolto verso l’alto, l’altro verso il basso. Un’apparizione fugace, racchiusa e conclusa in un voltare di pagina, in cui il corpo è ancora meno presente che altrove, non solo perché la figura umana è due volte mediata, si tratta infatti di incisioni cinquecentesche di Albrecht Dürer a loro volta fotografate, ma anche perché i volti dalle delicate fattezze poco hanno a che fare con la corporeità materiale, viva e pulsante che conosciamo. Appartengono ad un angelo e ad un santo e dunque potrebbero al massimo afferire allo spirito. Tuttavia, in questa breve apparizione percepiamo il tratto, la pressione della mano che ha eseguito i disegni, la storia che li ha tramandati, la cultura che li ha creati e in seguito studiati. Va costruendosi così lentamente anche in questo lavoro dell’Alfieri quell’idea di rappresentazione come ri-presentazione, ossia presentazione di un’assenza che è erede del pensiero di Louis Marin. Ed è proprio questo tema che accomuna questo progetto ai precedenti, seppur visivamente molto distanti. Per la prima volta, infatti, in queste immagini non appaiono più i vestiti – impeccabili still life dall’illuminazione assolutamente neutra, quasi scansioni della realtà – ma entra in scena il paesaggio, genere con una lunga storia alle spalle, in pittura come in fotografia. Sono i luoghi dell’appennino parmense, dove si incontra una natura ordinata, accogliente, quasi addomesticata. Luoghi in cui la figura umana ancora una volta non c’è, ma dove sicuramente è passata, perché recano le tracce di chi vi ha camminato. È una tacita presenza che viene sottolineata da una narrazione che procede per contrappunto mettendo in relazione i paesaggi con piccoli rettangoli di stoffa che evocano la parte organica del corpo. E se nella fotografia di paesaggio le presenze naturali si animano e riescono a dare voce ad un’interiorità fatta di sensazioni e impressioni che non si possono vedere ma solo suggerire, le fotografie dei tessuti dialogano attraverso disegni, linee, forme, colori o semplici associazioni. Il racconto si svolge per evocazioni e metafore in un alternarsi ritmico, cadenzato di luci ed ombre, rossi ed azzurri procedendo a una mappatura inaspettata del senso del corpo, nella duplice accezione del dare significato e del sentire, percepire.
Quello che abbiamo dinanzi è dunque un tessuto ben più vasto dei rettangoli di stoffa che vediamo e cui forse sineddoticamente alludono. È innanzitutto il tessuto del mondo, ancora una volta il paesaggio, ma anche il tessuto nel senso di rapporto, relazione, intreccio, insieme di elementi strettamente connessi tra loro.
Lentamente il corpo, il senso del corpo, si costruisce per piccole assenze, delicate metafore, sottili rimandi che non si possono spiegare ma solo percepire attraverso impressioni, che riguardano i sensi, non la ragione. Ed è proprio attraverso queste analogie, che chiamano in causa le sensazioni e non l’intelletto, che si fa strada il senso del corpo.
In linea con l’ermetismo, che usava spesso l’abolizione dei nessi logici tra le parole, gli spazi bianchi, il rimando a significati nascosti, la ricerca fotografica di Benedetta Alfieri procede percorrendo simili sentieri, dove i segreti non possono trovare piena espressione perché fanno parte della nostra esistenza, come allude la poesia di Salvatore Quasimodo cui questo lavoro mutua il titolo: un incurvarsi d’orbite segrete/dove siamo fitti/coi macigni e l’erbe.

Milano, giugno 2012
© Francesca Mila Nemni