Fondo bianco (quasi sempre, comunque monocromo), oggetto al centro: questo tipo di composizione ha una storia, anzi due. Dove c’è riduzione – è un postulato modernista – c’è precisione e richiesta di attenzione su aspetti che altrimenti sfuggono; ma quel bianco del fondo, un tempo segno di isolamento, sospensione, decontestualizzazione e astrazione, ora è un altro tipo di evidenziazione, iperrealista, nel senso dell’iperrealtà, di una realtà fatta immagine. Se da un lato rimanda alle avanguardie, e a un’operazione specifica, che solo la fotografia può fare, un fondo che si crea solo in studio o al computer e una messa a fuoco da “nuova oggettività”, da ”inconscio ottico” – immagine che mostra più di quello che vede l’occhio –, dall’altro fa pensare alla pubblicità, all’oggetto diventato protagonista del mondo delle merci. Tanto più per il fatto che Benedetta Alfieri ha scelto come soggetto di queste serie, le sue più note, degli abiti.
Se si prende la serie che ha per soggetto le scarpe, il riferimento diventa ancora più esplicito: le scarpe sono infatti al centro di uno dei più famosi dibattiti estetico-filosofici del secolo scorso, a partire dal Martin Heidegger passando per Jacques Derrida e Fredric Jameson, e dalle scarpe di Van Gogh a quelle di Magritte e Warhol e altre ancora, che ci ricorda che la definizione di oggetto, di realtà e di opera d’arte si ripropone ad ogni tornante storico. Alfieri sembra allora voler aggiungere la questione della fotografia ai termini del dibattito: quale medium più della fotografia ha infatti cambiato la rappresentazione e l’interrogazione della realtà? Molto più che sola rappresentazione, la fotografia è infatti un’impronta luminosa, come ormai si ribadisce da ogni parte, e dunque derivazione diretta dall’oggetto reale. Tanto più che Alfieri sottolinea questo aspetto riproducendo gli oggetti alla loro dimensione originale, in scala uno a uno, appunto come delle impronte – come ribadisce un’altra serie, quella dei guanti, che sono, ancor più delle scarpe, come delle matrici, degli stampi delle mani.
Ma, tornando agli abiti, come del resto le scarpe e i guanti, essi sono innanzitutto vuoti, senza corpi che li indossino. Un sostituto del corpo per la verità a volte c’è ed è a sua volta la spia di un aspetto ulteriore dell’opera. Parliamo dell’appendino in fil di ferro, molto comune ma altrettanto strano se guardato appunto come sostituto: quel gancio al posto della testa risulta infatti perturbante almeno quanto un manichino dechirichiano o surrealista. I vestiti vuoti d’altro canto fanno pensare tanto al guardaroba quanto a personaggi particolari come gli Scapoli duchampiani (e alla sua “jaquette”, ma anche agli abiti appesi da diversi artisti, da Joseph Beuys a Jannis Kounellis a Maurizio Cattelan e altri), qui dunque coniugati al femminile. E l’appendino è anche il dispositivo per esporre l’abito, proprio come si dice dell’esporre un’opera o una merce, nonché, fotograficamente, un’immagine.
Il più delle volte tuttavia l’appendino non c’è e l’abito appare sospeso, o appoggiato allo sfondo, probabilmente fotografato orizzontalmente e poi tirato su verticalmente, immobile, piatto, svuotato. L’assenza di corpo è assenza di pieno, verrebbe da dire di contenuto, e suona giusto, perché significherebbe che qui c’è solo la forma, la veste nel suo senso più forte. Tutto sembra così reale e irreale al tempo stesso. Il tempo, appunto, in primo luogo: quanto tempo hanno questi vestiti? Una serie si intitola Generazioni, come a voler indicare che sono abiti da cui si deducono generazioni diverse. Un’altra serie si intitola Sorelle, giocando allora sull’analogia e vicinanza. Ma di chi sono poi questi abiti? Essendo l’autrice una donna, si potrebbe pensare che siano suoi. Gli abiti fanno sempre pensare a un legame diretto e intimo, personale: alcuni sono intitolati appunto Ritratto, ma di chi? Potrebbe essere di qualcuno in particolare, o di chiunque, ma questo chiunque lo caratterizzano comunque. I vestiti dicono molte cose di chi li porta, anzi di chi li ha portati – il tempo è appunto al passato –, ne rispecchiano i gusti, ne mantengono inoltre le tracce, le impronte: sono già essi stessi delle “fotografie”, sono la forma del contenuto.
Sì ha un bel dire che l’abito non fa il monaco e che le apparenze ingannano… Casomai i proverbi mettono in guardia sui nostri automatismi, non sulla correttezza della forma. Bianche apparenze le ha chiamate Alfieri. È lo statuto stesso della fotografia: le attribuiamo automaticamente un effetto di realtà, scambiando la realtà rappresentata con la realtà dell’immagine.
È quanto riprende l’espressione “uno a uno”, è quello che dice propriamente la fotografia: non solo la scala a grandezza naturale, 1:1, ma anche l’impossibilità di generalizzare, di confondere o di idealizzare, il considerare una cosa per volta, ogni cosa in dettaglio e per sé. Le immagini di Alfieri insistono molto sulla perfetta definizione di ogni particolare, quasi che ogni minuzia abbia un’importanza determinante. E ce l’ha in effetti, perché racconta, indiziariamente, la storia degli oggetti, ma soprattutto perché ci ribadisce che ogni particolare dell’immagine ci racconta la storia dell’immagine, ogni dettaglio ci parla della sua peculiarità, del suo statuto.
Nei cataloghi Alfieri riproduce ogni volta anche dei particolari degli abiti, esortandoci appunto a guardare in dettaglio. Verrebbe allora voglia di divagare su panneggi, pieghe, lacci, cuciture, sbuffi, decorazioni, con tutti i rimandi storici e metaforici che essi evocano, ma in realtà quello che Alfieri qui ci invita a cogliere è ancora una volta la corrispondenza della scala 1:1, cioè ora, mentre le riproduzioni a tutta immagine sono invece sempre ridotte, l’essere al tempo stesso esattamente come nella realtà e come nell’opera, cioè nella realtà dell’opera1. Vorremmo dire che la texture dell’abito si confonde con la grana della fotografia.
È, questo, il ribadire la perfetta “oggettività” dell’immagine, vorremmo anzi dire la sua “letteralità”, l’oggetto preso alla lettera – e la fotografia presa alla lettera. E anche la moda, la pubblicità, i “contenuti” presi alla lettera. Qui cioè c’è tutto quello che ci deve essere, ma che è proprio ciò che dalla moda, pubblicità e contenutismo viene alterato, o caricato di connotazioni, di immaginario, di idealizzazioni, per significare altro da ciò che è, per evocare un mondo, invitare ad identificarsi, e ad acquistare2. Qui c’è l’abito per quello che è, cioè come un punto interrogativo, o esclamativo, come la serie di domande che esso solleva in quanto immagine, come l’affermazione perentoria che esso rappresenta.
Senza corpo, senza sfondo, l’abito è concreto e astratto allo stesso tempo, iperreale infine, dicevamo, per come è fotografato. Tutto così a fuoco come l’occhio non riesce a fare, lo sguardo ne viene quasi allucinato, come se l’immagine apparisse più realistica del reale stesso, più un sostituto che una rappresentazione, ovvero, per dirla con Jean Baudrillard, come se il reale, invece che apparire, diventasse immagine.
I vestiti di Alfieri non sono né il progetto di globale di August Sander né la collezione di “sculture anonime” di Bernd e Hilla Becher. La differenza è prettamente fotografica: mettendo a frutto il progresso insieme tecnologico e compositivo della fotografia, le immagini di Alfieri devono la loro efficacia al fatto di apparire insieme più reali del reale ma più, “iper”, nel senso di quella differenza che sta tutta dentro l’eccessiva, sospetta, troppo dettagliata somiglianza, quella del clone più che della rappresentazione e perfino più che del sosia. Che questo avvenga con gli abiti vuoti come soggetto è una perfetta trovata non solo perché, come ribadiamo, il vestito è già una fotografia, ma anche e soprattutto perché qui lo è grazie al vuoto, all’assenza, intorno a cui ruotano tutti i segni e i caratteri che la costituiscono. Sarà per questo che l’efficacia a noi sembra di misurarla più che da ogni altro aspetto qui rilevato, alla fine dall’effetto di silenzio che circonda ed emana da questi oggetti, sospensione di qualsiasi artificio, assenza di qualsiasi punto di vista soggettivo. Quale sguardo, ci chiediamo, può tanto? Uno sguardo che da meccanico si è fatto iperumano.
Bergamo, febbraio 2011
© Elio Grazioli