Il nuovo progetto mette in mostra tre serie di oggetti. Il forte richiamo che essi suscitano sembra legato alle loro materie che, pur distinguendosi per composizione, temporalità e tecnica costruttiva, ispirano e rimandano a forme e radici antiche. Trovo che esistano delle analogie con tuoi precedenti lavori. Resta sicuramente la ricerca verso l’assenza di tracce esterne all’oggetto, resta sempre forte il legame con l’utilizzo umano eppure riesci a rendere questi oggetti dalle originali e irripetibili trame protagonisti di una nuova espressività e autonomia che li restituisce completamente differenti.
La ricerca uno due tre, nata qualche anno fa e presentata completa in questa sede, si occupa di indagare alcuni piccoli oggetti, sospesi tra ostensione e introversione. Il progetto si collega a precedenti lavori fotografici perché mi interessa ciò che gli oggetti – le cose – implicano e possono narrare quando sono portati in immagine.
La rappresentazione in sé toglie la funzione agli oggetti, quella proposta nel mio lavoro fotografico azzera anche la rappresentazione della funzione, l’oggetto contemporaneamente perde e acquista qualcosa. Sono convinta che oggi l’oggetto reale non sia più in grado di raccontare una storia che non sia una declinazione tratta da una delle discipline del sapere, una storia che non investa di funzioni d’uso, sensi della cultura materiale dell’uomo e anche, spesso, di eccessiva retorica. È l’oggetto che si fa immagine che può narrare attraverso il fascino enigma mistero, sempre attivo, della visione. Gli oggetti, una volta rappresentati, finiscono per costruire un racconto nuovo ed inedito grazie all’inconscio ottico, a quello tecnologico e alla capacità della fotografia di trasfigurare i propri soggetti pur rimanendo una traccia. In svariati e mirabili interventi, Louis Marin riprende la scena “primitiva” delle donne che trovano vuoto il sepolcro di Cristo e, nello sgomento generale, ascoltano le parole dell’angelo: Egli non è qui. Egli è risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Il discorso dell’angelo sostituisce il corpo assente del Cristo, organizza una presenza mancante: il linguaggio, insomma, racconto o immagine che sia, viene in sostituzione di una mancanza per dare senso a qualcosa che non c’è più; il Cristo è assente in quanto corpo ma è presente nell’ordine simbolico. E in questa sostituzione del racconto al corpo o dell’immagine al corpo non si produce una perdita di essere ma un lavoro che intensifica e rafforza la presenza dell’assente.
Quale relazione hanno queste serie di oggetti?
Un discorso riguarda la relazione che hanno tra loro gli oggetti reali, un altro la relazione tra gli oggetti fotografati.
Perché la matita ha quella forma? perché la falce ne ha un’altra? e perché l’altalena ne ha un’altra ancora? Gli oggetti, tutti gli oggetti in genere, portano trattengono custodiscono, nella loro forma e in forma di assenza, il corpo umano: ogni oggetto deve compiere un’azione e deve compierla attraverso un gesto umano. Gli oggetti aderiscono al corpo con un senso che è dato dalla funzione. La relazione che esiste tra gli oggetti reali, scelti per uno due tre, è data dal richiamo intrinseco al corpo umano. La relazione che si instaura tra gli oggetti all’interno dell’immagine è provocata invece dalla ripresa zenitale che è una scelta di linguaggio. Lo Zenit è un punto ideale e sta dalla parte opposta al Nadir. Zenit e Nadir sono definiti i poli dell’orizzonte: lo Zenit è il punto di intersezione della perpendicolare al piano dell’orizzonte, che passa per un ipotetico osservatore, con l’emisfero celeste visibile: è quindi il punto sopra la testa; il Nadir, all’opposto, è quel punto che sta sotto le scarpe. Ma se il primo è un punto aperto perché, in uno sforzo immaginativo o slancio poetico o concreto esercizio, regala infinite possibilità di incrociarlo con gli occhi alzando la testa per aria, questa possibilità con il secondo è negata; anche con estremi sforzi, il Nadir non potremo mai individuarlo, quello che potremo fare è solo immaginarlo idealmente.
Le tue fotografie sembrano lavorare sull’anima dell’oggetto.
La domanda è molto difficile perché la trasfigurazione che la fotografia consente è una cosa, una sorta di animismo messo in atto con la fotografia è un’altra. Cerco di ragionare in altri termini. Quando si parla di ritratto fotografico entra in campo un indefinito dualismo tra fotografo e fotografato, ovvero il risultato porta con sé il condizionamento, la concezione del ritratto, la cultura del fotografo, oltre all’immagine della persona ritratta da lui concepita e scattata, ma reca anche traccia del carattere e della soggettività del fotografato. Il ritratto è sempre l’incontro di tre elementi: il mezzo tecnico, lo sguardo di chi ritrae e quello di chi viene ritratto.
Ma quando è presente un soggetto inanimato al posto di uno animato? Il gioco relazionale sopravvive? È possibile rintracciare spazi di soggettività che trasformano l’oggetto da oggetto fotografato a soggetto della fotografia? Forse. Un recente contributo di William J.T. Mitchell ha lanciato l’idea di provare a pensare alle immagini non come oggetti passivi in balìa del nostro sguardo ma come soggetti animati dotati di personalità, bisogni e soprattutto desideri: la domanda da porsi sarebbe non cosa le immagini significano ma che cosa vogliono.
Come architetto sono affascinato dal tuo lavoro sempre in scala 1:1, mi ricorda molto l’approccio del regista giapponese Yasujiro Ozu che usava un solo obiettivo fisso montato sulla cinepresa: questo rendeva complicatissima l’organizzazione del set cinematografico ma inimitabile la sua opera. Anche lo sfondo bianco assoluto sembra una costante nel tuo lavoro. Ho conosciuto in una mostra il nero di Pierre Soulages ed è stata una rivelazione. Pensi che sia un tema su cui potresti avere degli sviluppi?
La fotografia è un indice e uno due tre si nutre di questa definizione, i soggetti delle immagini infatti ripropongono le medesime misure degli oggetti reali suggerendo così corrispondenza con il reale ma ambiguità con la rappresentazione che non è, normalmente, a dimensione reale.
Anche lo sfondo bianco è una scelta precisa: il bianco, liquidato come colore senza tinta oppure contenitore di tutti i colori dello spettro elettromagnetico, è una questione complessa e quello puro o assoluto un’ossessione del tutto occidentale. Il bianco utilizzato nella mia ricerca è fotografico e riflettente. Se c’è riflessione, c’è anche un soggetto e un oggetto, se c’è riflessione c’è un curioso dispositivo che si innesca tra opera e fruitore. Il bianco, in latenza, pare avanzare la suggestione che la sua apparente uniformità sia instabile.
Chi ragiona con il bianco finisce per sviluppare interesse, prima o poi, per il nero.
Il riuso ha invaso la società contemporanea di nuovi oggetti di design re-interpretati o re-assemblati differentemente. Da Marcel Duchamp a Piero Manzoni, passando per la Sella di Achille Castiglioni, gli oggetti si sono liberati dall’immagine legata al loro semplice utilizzo corrente, e sicuramente opere come Ceci n’est pas une pipe di René Magritte aveva già da tempo portato un contributo nell’arte. Nel contempo trovo che la tua ricerca sia completamente differente perché lavora non solo sulla forma, materia o rappresentazione convenzionale.
Il piano bidimensionale della fotografia comprime il corpo dell’oggetto, la sua stratificazione materica, ma finisce per potenziarne lo spirito, la sua stratificazione di senso. C’è anche altro.
Senza luci contrastate, senza ombre portate, senza sfondo, si è portati a pensare che ciò che si vede sia davvero l’oggetto reale. Si tratta di una finzione che finge di non essere finzione. Con il passare del tempo, dopo diversi pensieri e numerosi scambi, ho iniziato a considerare che gli oggetti fotografati enunciano se stessi ma, mentre enunciano, mentono non sapendo di mentire.
Le fotografie della ricerca sono inoltre pensate all’interno di installazioni contribuendo così ad articolare il discorso anche sulla terza dimensione. Con uno l’intenzione è stata quella di incorniciare, letteralmente, la funzione dell’oggetto con un ribaltamento, l’oggetto da strumento
di devozione diventa immagine e oggetto di devozione; con due ho voluto lavorare sulla trasfigurazione moltiplicata; con tre sulla finzione, il risultato del desiderio umano di misurarsi
con il cielo stellato e il cosmo si concludono con la contemplazione di corpi celesti fittizi.
In una intervista di Luca Panaro del 2012, Intervistalartista.com, parli del tuo interesse verso le immagini di Marte e in generale di un futuro, umano e artistico, nello spazio cosmico. Stranamente siamo in un periodo dove il sogno spaziale è poco presente nelle ricerche e interessi collettivi, nelle notizie giornalistiche e anche nella letteratura o fiction.
Con il primo viaggio sulla Luna lo sguardo umano si è rivolto a sé e, come è stato autorevolmente scritto da un maestro della fotografia italiana, la prima fotografia della Terra contiene la rappresentazione del mondo e tutte le rappresentazione del mondo in una volta sola.
È subentrata in seguito l’abitudine a quell’immagine: non si fa più caso, come contemporanei, alle immagini del globo terrestre se non per commentare la risoluzione di una fotografia o per essere sorpresi da un originale punto di vista. Eppure qualcosa è cambiato, un termine della conoscenza si è spostato: la Terra vista da Marte è un puntino luminoso e minuscolo nell’oscuro – e nero – sfondo dello spazio. Se la prima rappresentazione della Terra era, tutto sommato, relativamente vicina, ed è possibile affermarlo oggi, Marte allontana la visione, mette spazio, aggiunge distanza. In quella distanza sta il passaggio dall’idea che il mondo sia dominato da un eccesso di senso e che esista una estrema difficoltà nel pronunciare fino in fondo la sua profondità, all’idea che il mondo stia perdendo o abbia già perso di senso e che la realtà appartenga solo a quel sistema di linguaggio che ne parla. Ecco perché penso che Marte sia il futuro. E che le immagini che arrivano da Marte siano più reali di quelle che circolano sulla Terra. Oppure è sempre possibile consolarsi immaginando che la Nasa non sia altro che un grande studio fotografico costantemente alla ricerca di sfere di straordinarie fatture e stupefacenti materiali, continuamente all’opera per fotografare e regalare a tutta l’umanità la più gioiosa, colorata, infinita possibilità dell’universo.
Intervista realizzata in occasione della mostra uno due tre, 7 marzo – 12 aprile 2014, Centro Culturale Livia Bottardi Milani, Pegognaga (MN)
© Mauro Manfrin e Benedetta Alfieri
© Novecento e oltre