Ai suoi tempi eroici, Ranuccio Bianchi Bandinelli, in tutti gli scritti tecnici ma soprattutto nel sorprendente Diario di un borghese, insistette sino alla morte che si deve scrivere, nel suo caso di Archeologia e Storia, in modo da essere compresi da tutti, con semplicità, con modestia e con partecipazione.
Io appartengo di diritto alla categoria di coloro che, sulla base di informazioni generiche o specificatamente interessati o per purissimo caso, sono entrati a visitare una mostra.
Non sono un critico militante né delle arti né delle tecniche artistiche.
Sono, a tutti gli effetti, solo e soltanto uno spettatore. L’espressione inglese bystander riflette ancora meglio la mia condizione intellettuale: sono uno che sta lì, quasi per caso. Ma sta vicino. E guarda. Cercherò, quindi, di stare vicino alle opere. E di guardarle.
Una delle caratteristiche ovvie e immediatamente riscontrabili nel lavoro di Benedetta Alfieri è l’uso esclusivo, deliberato e ossessivo del rapporto dimensionale 1:1.
Stiamo entrando in un’area nella quale solo una compatta competenza permette di avere immagini a dimensione reale: incertezze tecniche, approssimazioni ottiche, scarso controllo delle variabili influenzerebbero disastrosamente una scelta così imperiosa e figurativamente rischiosa.
La scelta del rapporto 1:1 appare estrema e impressionante soprattutto nelle immagini di abiti più che in quelle delle scarpe. Un’immagine fotografica di 180 x 110 cm è molto complessa da realizzare, da trasportare, da esibire, da vedere e da vendere.
Mi riferisco in particolare ad una fotografia del gruppo Sorelle (2004) in cui appare, è il caso di dire, uno straordinario abito argenteo e complesso.
Nel catalogo della mostra personale Bianche apparenze1, lo stesso abito appare in cinque fotografie e misura sulla pagina, dal collo all’orlo della gonna, rispettivamente: 34, 36, 37, 150 e, infine, 1506 mm. Le prime tre immagini si riferiscono al vestito rappresentato simultaneamente all’ambiente; la quarta, circa quattro volte più grande, mostra il vestito isolato contro il suo fondo programmaticamente assente e bianco; la quinta, a sua volta, circa tre volte più grande della quarta, mostra un dettaglio del panneggio ed è, come dice la didascalia, in scala reale.
Le prime tre immagini non sono molto diverse da quello che si vedrebbe, per esempio, durante un party in cui una donna che indossasse proprio quel vestito si muovesse proprio in quella stanza; nella quarta la donna, adesso assente, apparirebbe quasi sola nel campo visivo, dominante e isolata dal contesto sociale, protagonista del nostro sguardo su di lei; la quinta non potrebbe non assumere i contorni di una sensazione tattile, di contatto: contatto privato, personale, intimo, non condiviso da altri.Già da questo primo assaggio della mutevole dimensione o scala rappresentativa si percepisce come una variabile apparentemente solo geometrica o visuale possa far assumere all’immagine diversi e quasi contradditori ruoli: ruoli di attore, ruolo narrativo, evocativo e infine nostalgico.
I nostri ricordi sono in scala reale? Una volta relegati allo spazio delle memorie, quali sono, quali divengono le dimensioni di una immagine?
La difficoltà a muoversi in uno spazio mentale ha portato, a partire dal 1973, ad una lunghissima e per definizione irrisolvibile diatriba in sede sia teorica sia sperimentale. Secondo una confessione scientifica, lo spazio mentale ha tutte le caratteristiche di quello costruito sulla base di dati visivi e percettivi; secondo quella rivale, invece, lo spazio mentale, anche se occupato da dati visivi, ha una struttura più simile ad un file alfa-numerico che ad un file d’immagini. Uno dei transiti più complessi e drammatici è quello che cerca di intuire o determinare – misurare è solo un’opzione insensata, per il momento – la struttura dello spazio dei sogni. La visione diretta di un oggetto reale, come una fotografia, senza dubbio mette in azione attività molto elevate di tipo cognitivo che si svolgono in parallelo con la visione diretta dell’oggetto reale, ma che vengono girate in un altro spazio di cui, forse per fortuna, non si sa ancora nulla.
Le immagini di scarpe, guanti e altri arredi corporei sono, ovviamente, più piccole e suscitano meno suggestione dimensionale ma si impongono comunque per una loro strana caratteristica percettiva. Di primo acchito, un’immagine in scala 1:1 non dovrebbe poi stupire troppo. Dopo tutto, ci muoviamo proprio in un ambiente in cui gli oggetti che tocchiamo, da cui siamo toccati o che, soltanto, vediamo, hanno la stessa scala delle immagini di Benedetta Alfieri. Se ci limitassimo a questa considerazione preliminare almeno un aspetto delle fotografie di cui stiamo scrivendo perderebbe di interesse. Eppure la sensazione di estraneità, di impossibilità o solo di inopportunità visiva resta. Questo ci obbliga a considerare una variante importante e cioè che non solo le fotografie rappresentano qualcosa in scala 1:1 ma che esse non sono cose. Un’immagine non è una cosa.
Praticamente tutte le immagini da cui siamo circondati non sono in scala 1:1.
Questo rapporto dimensionale con la realtà è rarissimo nel mondo delle immagini, ma anche in quello delle rappresentazioni tridimensionali e plastiche. In poche parole, non siamo preparati culturalmente a vedere immagini in scala 1:1. L’assenza, o obliterazione o eliminazione che sia, della terza dimensione, se la scala dimensionale assume i vari rapporti comuni, non introduce nessun disturbo percettivo nel mondo delle immagini. L’immagine viene in un qualche modo catalogata come un non-oggetto e, di conseguenza, una montagna di pochi centimetri di altezza, una nave da crociera di sei centimetri di lunghezza o un essere umano di trentadue millimetri di statura sono assimilati immediatamente e immediatamente riconosciuti come tali. Ma con le scarpe esattamente della dimensione corretta, con i guanti visivamente indossabili e con gli abiti il cui rapporto visivo è quello che si accompagna, da sempre, all’evocazione tattile (la cui dimensionalità percettiva è molto intricata da comprendere), l’assenza della terza dimensione gioca un ruolo praticamente distruttivo relegando l’immagine, pure nella scala naturale dell’1:1, in uno spazio strano e inabitabile.
La dicotomia che stiamo intravedendo, stimolati dalla variabile dimensionale, è tra una immagine e una cosa. Un’immagine è, necessariamente, una cosa solo nel senso che si tratta, tutto sommato, di un oggetto fisico (anche nel caso di immagini fatte di luce come quelle proiettate su di uno schermo o che da uno schermo vengono emesse). Nel caso di immagini di un paio di scarpe in scala reale quello a cui immediatamente lavora il nostro sistema cognitivo è la costruzione dell’immagine residua, cioè della nostra ricostruzione interna del corpo mancante o, solo temporaneamente, in vacanza. L’immagine in scala reale ci impegna in questo processo faticoso e, al termine, frustrante.
Posso sempre immaginare un ulteriore personaggio in un angolo di un campiello veneziano sulla base delle suggestioni, anche millimetriche, di un Canaletto ma il gioco si ferma qui: resta un esercizio ginnico. Invece, la costruzione di un intero corpo umano, con tutto quello che ha o avrebbe da dirmi, è lavoro pesante, oscuro e forse doloroso.
Le ragioni estetiche, espressive e narrative di questa decisione così semplice, ma pur così distruttiva dell’esperienza comune, appartengono allo spazio personale, intellettuale e culturale di Benedetta Alfieri.
Vi è un altro elemento assai caratteristico di queste immagini: lo sfondo. La presenza del bianco è stata notata, ovviamente, da tutti coloro che hanno scritto di queste immagini e la fotografa stessa esplicitamente ne parla come di una scelta di linguaggio.
Ragionando attorno a questa caratteristica, la prima osservazione tecnica è che il piano su cui poggiano le scarpe è reso invisibile da un’intensa e omogenea luminosità; le scarpe invece sono state intensamente ed esplicitamente illuminate da sorgenti diffusive laterali. Naturalmente la qualità ottica delle scarpe, il loro stato d’uso, la loro condizione di essere allacciate o con i legacci liberi, i dettagli delle etichette e tutto il resto è perfettamente reso e reso riconoscibile. Ma una violenta contraddizione è stata deliberatamente introdotta con evidente intenzione di disturbo e/o altro scopo. Le scarpe dovrebbero proiettare ombre su di un piano fisico di appoggio, un pavimento, uno scaffale, un mobile, qualcosa sul quale si localizzino delle ombre portate. Le scarpe sono portatrici, invece, solo di ombre intrinseche ma le loro corrispettive sorelle, quelle portate o proiettate, sono del tutto assenti. Un modesto trucco fotografico, quindi, un’astuzia distrattiva, un deliberato errore narrativo e lessicale? Difficile da valutare, da sapere e quindi da sottoporre a critica. Ma l’effetto è intenso e memorabile.
In ogni caso, anche per queste immagini, vale una regola molto semplice che si dovrebbe applicare tutte le volte nelle quali si ha a che fare con l’osservazione di fotografie, prodotti grafici e pittorici: l’immagine richiede tempo di osservazione.
La nostra attitudine a consumare un’immagine anche altamente complessa in pochi secondi, neppure un minuto, rende praticamente impossibile l’analisi del manufatto sotto scrutinio. E, mentre l’esplorazione percettiva si avvia troppo prematuramente alla sua quasi istantanea conclusione, subito si fa strada un discorso linguisticamente articolato che finisce per obliterare il processo di analisi. E che finisce per determinare la bassa e confusissima qualità intellettuale di molte critiche, militanti o no.
Si potrebbero considerare ancora uno o più livelli a diversa distanza o altezza tra di loro: l’aspetto estetico, espressivo, formale, storico, iconologico o iconografico. Mi limito ad un solo paragone. Sento quasi irresistibile ricordare un altro artista: Claudio Parmiggiani.
Non intendo dimostrare discendenze o ascendenze o contiguità o continuità ma il caso mi appare degno di esser notato, magari solo per una forte assonanza intrinseca. Mi riferisco ad un Parmiggiani di un’opera piuttosto intricata, Angelo (1995) che, per comodità, potremmo definire scultura. Esibita per la prima volta al Padiglione Italia, XLVI Biennale di Venezia, appariva anche, per il suo significato assai intenso nella carriera dell’artista, nella mostra personale presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna; essa è fotografata mirabilmente nel catalogo a cura di Peter Weiermair2. Nelle schede è descritta come fango, legno, cristallo, 260 x 51 x 41 cm. In altre parole, si tratta di un alto parallelepipedo di cristallo sulla cui base, bianca e nuda, stanno due scarpe da uomo. Appaiate. Le dimensioni della scultura suggeriscono una figura umana, o angelica, di dimensioni in scala reale. La suggestione deriva dal paio di scarpe e dal volume cristallino che potrebbe benissimo contenere un corpo umano, o angelico. Le scarpe non sono infangate ma costruite con il fango.
Non mi pare impertinente citare qui questa scultura. Le ragioni sono proprio insite nella complementarietà delle fotografie di scarpe di Benedetta Alfieri contro l’apparente tridimensionalità di Parmiggiani. In questo caso, l’oggetto assente-evocato è il corpo o presenza umana, o angelica, esattamente come accade con le fotografie che stiamo analizzando. Le basi su cui poggia la figura assente sono bianche, non strutturate, non dette. Ma se per Parmiggiani viene evocata una tridimensionalità esplicita e, al tempo stesso, evanescente come il cristallo, per l’Alfieri la bidimensionalità programmatica domina la percezione delle sue immagini fotografiche e la terza dimensione, assente, è quasi più reale, pesante e fisicamente percepibile della componente cristallina, pur volumetricamente individuata da Parmiggiani.
Infine, la materia fangosa tattilmente esplicita, in Parmiggiani, è già allegoria, anche verbale; per l’Alfieri l’immagine, ufficiosamente astratta e quasi immateriale, mantiene e trasferisce brutalmente sul riguardante la forza e la fisica e la fisiologia del camminare, del muoversi, dell’essere lì e in quell’istante.
Non si può dimettere, però, questa popolazione di immagini molto coinvolgenti e molto intense senza almeno un brevissimo tentativo di lettura.
Al di fuori e lontani dall’estremamente e astutamente finanziata e saccheggiata retorica del corpo, del corpo post o pre umano o altre etichette di comodo, non si può non ammettere che queste immagini di Benedetta Alfieri siano un solido esercizio sottrattivo e di reticenza operazionale. Il corpo fisico dell’uomo o della donna è stato presente ma, al momento dello scatto, non c’era o non c’era più. Il corpo non è simultaneo allo spazio. I segni d’uso, quasi disturbanti per la loro evidente storia biologica e personale, sono lì, a dimostrarne il passato. E forse, con fatica, a vaticinare un futuro.
L’assenza del corpo, inoltre, si accompagna ad una sottrazione marcata del mondo tout court. Il piano d’appoggio, in una parola il pianeta, scompare sostituito da una luce così onnicomprensiva e onnivora da risultare invisibile; le ombre, che sono anche assai ingombranti negli ecosistemi comuni della nostra vita quotidiana, sono del tutto assenti. Il movimento appare vacante e, d’altronde, come potrebbero le scarpe camminare da sole? E, soprattutto, dove andrebbero? Sono addirittura appaiate e neppure resta ad esse il passo con lo sfalsamento del piede destro rispetto al sinistro.
Sfalsamento che venne concesso persino ai Faraoni, perennemente in cammino.
Genova, febbraio 2008
© Ruggero Pierantoni