< Il corpo scomparso, l’abito caduto

Le metafore “sorelle” di Benedetta Alfieri
di Livio Billo

in Enrico Gusella (a cura di), Benedetta Alfieri. Bianche apparenze, Centro Nazionale di Fotografia, Padova 2007

L’arte, la pittura in specie, ha sempre avuto con il corpo una correlazione molto stretta e precisa, essendo attività che fondamentalmente descrive e allinea corpi nello spazio della rappresentazione visiva. E questa correlazione esiste e si fa anche più stringente con la moda, la quale pure ha a che fare con la descrizione e l’allineamento di corpi, più o meno vestiti, nello spazio. Uno spazio –  il suo – che, in modo non dissimile da quello pittorico, è costitutivamente uno spazio della finzione, piuttosto che della funzione, come per altro un qualsiasi défilé o anche una semplice vetrina di boutique facilmente dimostrano.
La corporeità, quindi, si pone non solo come elemento naturale ed ontologico della rappresentazione visiva, ma stabilisce anche – per inciso – quali siano i termini della relazione di scambio tra arte e moda: oggidì, una moda nella moda.
Tuttavia, da quando il corpo è andato irrimediabilmente in crisi – crisi d’identità e di riconoscibilità – e ha cominciato a darsi, quando si dà a vedere, talora per elisione e carenza (anoressica), talaltra per ipertrofia ed eccesso (bulimico), o da ultimo per semplice assenza, nell’essenza immateriale e a-spaziale dei suoi possibili succedanei virtuali – i vari avatar di Second Life et similia –, succede che anche la pittura sia stata e sia obbligata a seguirne vicissitudini e traversie, dandosi anch’essa a vedere ora per riduzione estrema (minimalista), ora per negazione e “azzeramento” (concettualista) di quei suoi segni costitutivi – figure e colori – che rinviano per l’appunto ai corpi nello spazio.
O, viceversa, è andata incontro ad una patologia da sovra-dimensionamento – l’obesità iperrealista – o alla nevrosi compulsiva da (di-)stanziamento nostalgico. L’una come effetto indotto dai tentativi di rinsanguare e rianimare un corpo ormai fatto cadavere, ottenendone di fatto un simulacro inerte, da museo delle cere. Ancor peggio: una sorta di salma imbalsamata offerta all’ostensione pubblica, come quelle di Lenin o Evita Peron nella loro trasparente, ma impenetrabile bara di vetro. L’altra, la compulsione del tutto conseguente alla pratica citazionista vanamente protesa alla riattivazione di un’intimità – o, almeno, prossimità – che risulta però, alla prova dei fatti, del tutto impraticabile: la citazione altro non essendo se non una forma di “eccitazione” surrettizia prodotta da un oggetto – il corpo, appunto – divenuto un oscuro ed irraggiungibile “oggetto del desiderio” che l’occhio e la mano non incontrano più.
Col risultato – scrive Giulio Carlo Argan, a proposito di un artista di cui al momento omettiamo il nome – di un disperato appello de profundis ad una metafisica assurda. Di un’assurdità che tale è proprio in quanto costrizione dei referenti corporei primari – la forma spazializzata (figura) e la spazialità temporalizzata (gesto) – a raggelarsi, a contrarsi, a trovar riparo infine nella trama di una stoffa o nell’architettura di un bottone.
Questo è quanto a nostro giudizio fa anche l’Alfieri, con l’ostensione di quelle sue gigantografie a stampa fotografica di abiti – quasi sempre femminili – o di un qualche loro dettaglio lenticolare, ma invariabilmente proiettato su scala macroscopica. Ci par di rilevare qui, se non una commistione, una consonanza almeno con il linguaggio di quell’artista, Domenico Gnoli – ecco l’agnizione! – cui segnatamente si riferiva Argan, nel suo richiamo ad un processo di “metafisicizzazione” riduttiva, dall’essenziale-ideale al banale.
Una metafisica che si identifica – commenta Lara-Vinca Masini – nella evidenziazione e nell’ingigantimento di un frammento di immagine, più spesso o nei casi pittoricamente più felici prelevata proprio dal guardaroba domestico: una cravatta, una camicia bianca, un paio di scarpe (da donna), la manica o i revers di un completo gessato, eccetera. Fino a sortire così ad uno straniamento d’immagine che è sì “per li rami” frutto delle “manipolazioni” e ibridazioni oggettuali variamente praticate in area neo-dada e pop – dalla estrapolazione e spostamento dal contesto usuale all’iterazione seriale, alla maggiorazione di scala –, ma che nondimeno risulta essere il derivato naturale e tutt’affatto nostrano di quella tradizione “non eloquente” che dall’algido e silente Piero approda per l’appunto alla scuola metafisica dechirichiana, per transitare e trasmigrare quindi ad un certo surrealismo, di tempra altrettanto severa e laconica, e parco sempre di manifestazione d’affetti o, meglio, di esternazione sur scène dei loro effetti.
Ceci n’est pas une pipe – questo non è una pipa –, dichiara in modo lapidario e senza possibilità di controreplica Magritte, quando lo sorprendiamo a prelevare, isolare e ingigantire un comunissimo oggetto del proprio universo quotidiano. Ma non è tanto a questo Magritte – all’inventore di bizzarri giochi e paradossi verbali – che azzardiamo rapportare l’opera della nostra fotografa, quanto a quell’altro che smonta e mette in bella evidenza dettagli di corpi femminili – seni, pubi, mani, piedi – o loro indumenti, anche questi per lo più “intimi”: camicie da notte, scarpe, sciarpe.
In questa sua curiosità un po’ – neanche poco, forse – voyeuristica, e dunque sottilmente morbosa, portata all’esplorazione del segreto universo femminile, si suol ravvisare la sopravvivenza mnestica di un trauma infantile dell’artista. All’età di quattordici anni gli era capitato di assistere al ritrovamento del cadavere della madre, suicidatasi per annegamento e ripescata dall’acqua seminuda, con la camicia da notte quasi interamente sollevata e scompostamente avvolta intorno alla testa. Molte sarebbero le opere magrittiane – le diverse redazioni degli Amanti, ad esempio – che tradurrebbero in immagine visiva questa memoria dolorosa, la quale è da presumere non sia mai stata del tutto completamente e convenientemente rielaborata a livello cosciente.
Gli abiti dell’Alfieri, vuoti e spenzolanti, sospesi nell’uniforme vacuità di un fondale bianco ed abbagliante, che recano impressa o piuttosto accolgono in sé un’impronta corporea comunque incompleta ed erratica, non saranno riconducibili allora proprio a questa sorta di nostalgia-perdita del corpo materno, ovvero del corpo tout-court, quale unità strutturante primaria? Un corpo la cui integrità è, come si diceva, sempre più esposta a rischi e minacce. Per frazionamento, riduzione o sineddoche – la parte per il tutto: più spesso – e di preferenza – proprio gli attributi femminili, osservati, ripresi, esibiti, ingigantiti nell’icona pubblicitaria mass-mediatica. Un corpo capillarmente esplorato, tomografato da apparecchiature medico-diagnostiche, chirurgicamente manipolato e ricostruito, artificialmente “trattato” fino a mutarne i caratteri naturali e l’identità originaria: creature trans-geniche, cyborg, ultracorpi. Sarà questo lo scenario del nostro prossimo futuro, popolato di quelle temibili “chimere” ed entità mutanti la cui irruzione nell’immaginario collettivo l’arte attuale puntualmente registra – dal “cane-medusa” fluorescente di Eduardo Kac alle performances con un “terzo braccio” robotico-telematico di Stelarc? O, in modo molto meno drammatico e preoccupante, avremo a che fare con delle innocue proiezioni e simulazioni elettromorfe del nostro soma, come già ne esistono – magari imbellite, sul tipo delle varie Kaya e Miss Digital World che popolano il Web? Ma senza comunque intaccare, contaminare e stravolgere la forma di quell’involucro organico cui ancora diamo il nome di “corpo”.
Comunque vada a finire, ciò che forse è meno noto è che anche l’abito reale, nella sua entità materiale e fisica, finirà per non esistere più o, quanto meno, per perdere sempre più velocemente il proprio tradizionale ruolo di “estensore” dell’io, la sua connotazione specifica di “protesi” identitaria, in ciò sostituito o sostituibile o da un’immagine digitale circolante in rete, oppure da apparati elettronici indossabili – i wearables, dispositivi miniaturizzati ad alta sofisticazione tecnica, in grado di interagire direttamente e positivamente con il corpo con cui vengono in contatto, migliorandone le condizioni e le prestazioni.
Che ne sarà, dunque, della cosa già nota come “abito”? La risposta sta qui, dentro queste bianche apparenze vestimentarie, talora indicate con il titolo di Sorelle, dove il richiamo alla “sorellanza” si fa allusivo ad una dualità per certi versi dicotomica e, per altri, complementare. La valenza tecnologica, anzi iper-tecnologica del mezzo di riproduzione scelto – stampa lambda su alluminio – fornisce per metafora una prima risposta circa il “destino” del prodotto-abito: continuerà ad esistere o sopravviverà in una versione comunque “artificiale” e in una dimensione di autonomia, se non di egemonia rispetto al valore-corpo (che infatti non compare mai). Di ciò che esso è stato, in senso antropologico e culturale, non rimarrà invece – seconda risposta, “sorella” alla prima – altro che una traccia memoriale, un reperto archeologico-museale, con il suo apparato didattico-didascalico ad uso delle giovani ed immemori generazioni. Ma quel suo antico ed essenziale legame con il corpo sarà perduto per sempre, nella condizione di separatezza e lontananza rispetto alla persona viva che pure se ne abbigliò e forse vi si ammirò, in un sogno fugace di bellezza e compiutezza di sé.

Padova, dicembre 2007
© Livio Billo