All’interno della ricerca della verità esistenziale, propria della filosofia di ogni epoca, la modernità è nata dalla separazione cartesiana di corpo e mente. La percezione sensibile, considerata ingannevole, si è così disgiunta dalla conoscenza razionale, in una separazione ricucita solo nell’esperienza immaginativa, che lo stesso Cartesio considerava necessaria attività connettiva tra corpo e mente.
Mettendo in discussione il pensiero moderno, nella contemporaneità si sono aperte diverse concezioni, che rimettono il corpo al centro dell’esperienza cognitiva della realtà, sia naturale che costruita dall’uomo, e considerano l’esperienza estetica come ampia forma di conoscenza del reale, indipendente dagli schemi concettuali del sapere.
Da ingannevole illusione, la percezione sensibile torna ad essere traccia utile alla comprensione del mondo.
Dissolvendo le sovrastrutture del linguaggio e risalendo all’origine, il corpo resta luogo privilegiato dell’esperienza del mondo, al quale, con lo sviluppo della tecnologia, si sommano ulteriori strumenti di registrazione che ampliano la percezione di ciò che circonda l’uomo.
Tra essi, la fotografia si pone come fondamentale mezzo di trascrizione della realtà, della quale può restituire un’immagine più completa dell’esperienza visiva oridinaria perchè capace di catturare maggiori dettagli, registrando anche l’invisibile ad occhio nudo e oggettivando le percezioni individuali.
Nella propria ricerca, Benedetta Alfieri utilizza il mezzo fotografico come strumento di conoscenza che concilia l’opposizione cartesiana di corpo e mente ed apre ad una lettura della realtà veritiera e nel contempo aperta all’attività immaginativa individuale.
In Album bianco, ricerca fotografica nata nel 2004/05 ma sviluppata ed arricchita di nuovi elementi fino ad oggi, campeggiano le immagini di abiti femminili di diversa foggia, appartenenti a diversi decenni partendo dalla fine dell’800, riprodotti in scala 1:1 ed isolati in un fondo completamente bianco che accentua il valore iconico del soggetto, sempre colto in posizione centrale rispetto allo spazio in cui si staglia nettamente. Gli abiti scelti possono riportare ad una precisa dimensione famigliare, suggerendo la successione temporale ed affettiva di nonna, madre e figlia. Nel contempo, l’assenza di volti riconoscibili apre a nuove possibilità, l’osservatore è attratto dall’opera e tende ad immedesimarsi in essa, come se il corpo svuotato di materia organica continuasse a vivere alimentandosi del pensiero di chi guarda e l’abito fungesse da specchio. Pur essendo sempre assente, il corpo risulta essere una presenza fondamentale, ancor più evidente perché messo a nudo nella sua essenza mentale.
Isolati nello spazio e inondati di luce cristallina, gli abiti perdono la loro funzione originaria per trasformarsi in affascinanti ed enigmatiche immagini che aprono diverse possibilità narrative.
La dimensione della memoria, spesso rievocata nella storia dell’arte con forme evanescenti che descrivono inesattezza e fallacia delle immagini mentali ordinarie, nelle opere di Benedetta Alfieri è trasformata ed analizzata con grande lucidità fino ad ottenere immagini particolarmente limpide, dalla tagliente nitidezza e dal luminoso splendore.
Le tracce del passato vengono quindi depurate dagli aspetti emotivi personali per essere idealizzate nella loro forma essenziale, fino a divenire segni che partecipano ad una nuova narrazione che si apre ad innumerevoli possibilità semantiche, andando a costituire le pagine di un album dei ricordi del quale ognuno può sentirsi parte.
L’inconscio personale diviene inconscio collettivo, in cui la memoria non è solo esperienza personale elaborata dalla mente ma è anche e soprattutto istintiva consapevolezza dell’unità delle cose, in cui il tempo e lo spazio coincidono in un eterno accadere della medesima esperienza psichica che unisce le diverse generazioni.
Partendo dall’esperienza personale, Benedetta Alfieri approda all’oggettività del reale, accentuata dalla modalità ossessivamente realistica con la quale sono riprodotti gli abiti, con tutti i dettagli perfettamente a fuoco, e dalla radicale astrazione del fondo monocromo.
Il mezzo fotografico diviene quindi strumento di conoscenza del reale che, rispetto all’analisi razionale della ricerca filosofica, fornisce immagini percepibili anche dai sensi, rendendo possibile un’esperienza maggiormente completa del reale, che può essere colta immediatamente, in immagini in cui corpo e mente convergono per trasformare il particolare in universale.
Osservando l’estrema pulizia formale delle opere di Benedetta Alfieri il pensiero non può non andare alla grande tradizione rinascimentale, in particolare alla luce e alla monumentale semplicità dei dipinti di Piero della Francesca. Come nel grande pittore umanista del rinascimento, anche nelle opere di Alfieri viene espressa un’idea del mondo che unisce razionalità ed estetica, cura formale e un’emotività soffusa, mai accentuata ma presente sottotraccia come energia sottile che calibra ed unisce gli opposti.
Anche nell’ambito del movimento Novecento possiamo ritrovare autori affini all’atmosfera silenziosa e meditativa delle opere di Benedetta Alfieri, come in particolare i dipinti di Antonio Doghi, mentre, passando all’arte della seconda metà del secolo scorso, si possono individuare alcune corrispondenze con l’iperrealismo di Domenico Gnoli e con la serie fotografica All the clothes of a woman dell’autore tedesco Hans-Peter Feldmann.
Al di là dei singoli autori, la ricerca di Benedetta Alfieri è in genere vicina all’atmosfera dell’arte classica che, pur nelle continue trasformazioni, connota l’arte occidentale nel suo costante accadere. Una tradizione che Benedetta Alfieri non ripudia ma che invece entra a far parte della mappatura affettiva che lega le sue opere, come nel catalogo della mostra Corpus Absconditum, del 2010, in cui il panneggio di uno degli abiti ritratti in Album bianco veniva associato alla fiera e ed elegante ieraticità dell’Auriga di Delfi, rendendo così esplicito il senso di continuità con il mondo greco.
La colorazione sentimentale con cui si tinge il tipico album dei ricordi nell’immaginario collettivo viene totalmente ribaltata da Benedetta Alfieri, che se ne serve come supporto di una raffinata decostruzione del reale in un alfabeto minimo che abbaglia per il proprio rigore analitico e attrae all’interno dell’opera per l’intrinseco antropomorfismo del soggetto, in cui l’osservatore si riflette. Osservando l’immagine si sviluppa un’energia che trasporta in essa, dando il proprio corpo agli abiti ritratti e rivelando alla coscienza la tendenza psichica ad identificarsi con le figure famigliari che gli abiti d’epoca suggeriscono.
La storia tratteggiata da Benedetta Alfieri non è la narrazione di una famiglia particolare, gli abiti sono reali ma le possibilità narrative sono infinite perché il corpo assente è il corpo di chi guarda.
Il passato e il presente coincidono come coincidono anche luoghi diversi, in un eterno presente che sospende il tempo per ingannare il divenire dei giorni.
Un trittico fornisce una possibile chiave di lettura dell’intera serie Album Bianco. In esso, tre immagini concentrano l’attenzione su piccoli particolari dello sfondo di foto d’epoca che fanno parte dell’album di famiglia dell’artista. I tre ingrandimenti sono tratti da fotografie di diverse epoche e luoghi, in cui erano ritratti alcuni famigliari dell’artista, vestiti con gli stessi abiti che compaiono in Album Bianco.
Le tre immagini vanno a formare un paesaggio unico grazie alla contiguità della linea formata dai monti, come se le diverse coordinate spazio temporali coincidessero in un’unica visione che unisce le distanze e ricongiunge con esperienze che sembravano perdute.
La memoria viene quindi ricostruita, rinnovata tramite un montaggio che apre a molteplici possibilità di riscrittura e trasforma il vuoto in viva presenza.
Milano, novembre 2016
© Andrea Lacarpia