< Intervista a Benedetta Alfieri

di Luca Panaro

in Intervistalartista.com

Guardando il tuo lavoro mi viene in mente il termine “ostensione”, spesso associato all’esposizione di reliquie da contatto, oggetti o vestiti che hanno avuto una diretta connessione con il corpo di un santo o di una persona celebre. A chi appartengono gli abiti o gli accessori protagonisti delle fotografie?
Quella dell’ostensione è una questione affascinante che ben rientra tra i discorsi possibili sul mio lavoro fotografico. Ma più che l’ostensione religiosa o celebrativa a me interessa quella linguistica, mi interessa soprattutto la definizione ostensiva che gli oggetti fotografati sembrano implicare e dare di se stessi, finendo tuttavia per collassare implodere precipitare nella definizione stessa.
In questo caso, gli abiti fotografati dicono affermano enunciano continuamente se stessi dicendo affermando enunciando di essere abiti ma mentre dicono affermano enunciano, mentono.
Ho iniziato a convincermi che mentono non sapendo di mentire.
Gli oggetti fotografati – abiti, scarpe, guanti, una sola cuffia gialla – hanno bisogno di creare una relazione con chi li fotografa e chi li osserva: sono tutti oggetti appartenuti a qualcuno, persone di famiglia, amici, conoscenti, ma anche estranei che cedono i loro oggetti a patto di una storia che è poi anche una storia degli oggetti. Immaginate o reali, le storie sono destinate ad emergere. L’ostensione allora implica una storia?

I vestiti e il linguaggio fotografico che utilizzi per mostrarceli, sono entrambi impronte di una presenza di cui lo spettatore percepisce soltanto l’assenza. C’è un nesso fra il soggetto delle tue opere e il mezzo che utilizzi?
Presenza e assenza sono aspetti strettamente connessi in queste fotografie.
E il linguaggio fotografico concorre a creare questa apparente contraddizione perché simula la sua assenza: tutto sembra così naturale, senza luci contrastate, senza ombre portate, senza uno sfondo o un contesto che possano qualificare in qualche modo il soggetto, si è portati a pensare che ciò che vediamo sia un abito. Eppure si tratta di un artificio che finge di non essere artificio.
Ancora, l’abito è una traccia di qualcuno che ha abitato l’abito, la fotografia è una traccia dell’abito abitato: c’è un nesso, sì.

Trovo interessante la scelta di presentare i lavori in scala 1:1, questo rafforza l’idea di contatto…
La dimensione 1:1 rafforza l’idea di contatto ma anche di traccia, di indice. È una scelta deliberata: gli oggetti fotografati ripropongono con esattezza le misure degli oggetti reali suggerendo così corrispondenza e ambiguità tra immagine dell’oggetto e l’oggetto stesso. Non solo. L’idea di contatto, che in fotografia richiama innumerevoli altri contatti citazioni riferimenti, aggancia però anche una sorta di segreto che questi oggetti fotografati trattengono: un cortocircuito tra portatore, oggetto e fotografia.
Forse però è la trama, qui tradotta fotograficamente e portata ad una dimensione percettiva riconoscibile, che suggerisce un interessante equilibrio o squilibrio tra la grana fotografica e una potente metafora della possibilità.

Mi interessa anche la componente narrativa che si cela dietro l’apparente staticità dei soggetti. Ce ne puoi parlare?
L’oggetto reale con la sua materia e la sua storia non è più in grado oggi di raccontare qualcosa, di raccontarlo in un senso tale da non investirci sempre di stratificazioni archeologiche di vissuti, funzioni d’uso, sensi della cultura materiale dell’uomo. Spesso anche di tanta, troppa retorica. È l’oggetto fotografato che può raccontare attraverso il fascino sempre attivo della visione. E la componente narrativa degli oggetti fotografati che si cela dietro i soggetti, dietro la loro apparente staticità, si nasconde anche dentro e dietro perché la narrazione fonda tutta la ricerca: ad ogni oggetto consegnato per essere fotografato corrisponde una specie di rituale (laicissimo) di scambio: una storia in cambio di un oggetto (l’oggetto poi verrà abbandonato per fare spazio alla fotografia).
Scambio relazione processo che passa attraverso delle storie che vengono raccontate dai portatori degli oggetti reali, storie mai raccolte e lasciate latenti nelle fotografie. Le storie narrate che si perdono nelle parole, si conservano in altra forma nelle fotografie e diventano così la matrice di tutte le storie possibili.

Se dovessi associare la tua ricerca a quella di altri artisti contemporanei, anche di generazioni differenti, non solo per la scelta del soggetto rappresentato ma piuttosto per vicinanza di pensiero, a fianco di quali autori ti collocheresti?
La domanda apre a molte possibili risposte perché da una parte la mia ricerca fotografica non è conclusa, dall’altra perché guardo e ho sempre guardato non solo all’arte contemporanea ma anche alla letteratura e alla filosofia, per formazione e interesse. Ci sono alcune ricerche artistiche a me particolarmente care e che considero affini alla mia sensibilità, penso alle Verifiche di Ugo Mulas, alla raffinata eleganza pop di Roy Lichtenstein, ai classici moderni riproposti in chiave post moderna da Sherrie Levine o agli ambienti costruiti e poi fotografati di Thomas Demand e infine al racconto introverso dei bottari di Kim Sooja.
Ma è un elenco parziale e sofferto delle cui omissioni già mi pento.

Quali saranno i prossimi passi verso l’evoluzione del tuo progetto artistico?
Faccio parte di quella generazione che non ha visto il primo passo sulla luna e che, probabilmente e purtroppo, non riuscirà a vedere il primo insediamento su Marte. Mi sono immaginata spesso, come una degna eroina di una serie tv, dentro la prima navicella spaziale destinata ad organizzare una fissa dimora per i terrestri stanchi dell’idiozia umana. Mi capita di passare interi giorni a scaricare dal sito della Nasa centinaia di immagini dello spazio e ho una cartella specialissima sul computer intitolata a Marte.
Molti ragionamenti mi hanno portato e mi stanno portando lì, su Marte: è il futuro, anche quello dell’arte.

Intervista realizzata in occasione della mostra Visibile, invisibile, 28 marzo – 27 aprile 2012, Galleria Wabi, Milano
© Luca Panaro e Benedetta Alfieri
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