La trascrizione fotografica attuata da Benedetta Alfieri non trasforma l’abito in indumento-immagine, dacché, quantunque il vestito familiare smarrisca la sua struttura plastica nell’orditura intangibile tracciata dall’artista, il suo effluvio non svapora in una astrazione metaforica. L’abito, le scarpe, i guanti non sono oggetti metonimici: manca lo scenario, lo sfondo, la scena della fotografia di moda. La scrittura fotografica di Benedetta Alfieri impone un ritaglio al sistema della moda che sottrae l’abito alla presa dell’oggetto culturale serrato nel processo di comunicazione. La moda si adopera ad elaborare una realtà fittizia, postula una “ucronia” (Barthes 1967); la moda, infine, come sistema non è mai altro che una sostituzione amnesica del presente al passato. Gli abiti per Benedetta sono, all’opposto, oggetti-soggetti che celano momenti di intimità. Essi sono tratti da un luogo preciso della casa, lo spazio interno dell’armadio dove alberga un ordine che serba in sé alcunché di magico. Di contro, per il sistema della moda, che non conosce vera transitività, essere in un luogo è traversarlo. La fragilità della moda, il suo essere effimera, dipende dal carattere gratuito dei suoi segni. Il teatro della moda è sempre tematico, laddove l’oggetto indossato sopravviene al ricordo quale parte integrante del corpo che lo ha abitato, dopo averne accolto l’impronta. L’abito in Generazioni del 2003 è tessuto di una materia che non è inerte, né meccanica: la corporeità dell’abito è impregnata dei momenti discontinui della nostra storia, momenti che condensano valore ed hanno una forza simbolica propria. Tornare a questi momenti discontinui disvela un ordine e impone di seguire la via sperimentale per scoprire il senso che orienta. Aperte le ante, dischiuse le cassapanche accediamo all’ordine simbolico delle genealogie femminili, che si concreta nella pratica del prendersi cura delle cose oltre che degli esseri umani. Una pratica che si materializza del riporre, nel disporre gli oggetti-enti. Sull’oggetto si attua oggi la definizione figurativa della nostra realtà, sebbene sovente tale oggetto sia metafora del banale, del relitto isolato in una presenza inclemente e calcarea. Come gli attaccapanni disegnati da Hofkunst negli anni Settanta in scala 1:1, utensili che non possiedono sfondo o funzione, dilatati in una bidimensionalità che coincide con la superficie del quadro. Ma nel guardaroba non conserviamo solo ciò che ci è utile se c’è compenetrazione emotiva, coinvolgente agnizione. Lontano da analogie con l’arte oggettuale, gli indumenti rievocati da Benedetta non sono raccolti, impolverati e sbreccati, nei luoghi marginali della quotidianità, si sottraggono al riciclaggio, parola chiave della società dell’incertezza (Bauman 1999). L’ordine esterno della casa è l’assetto visibile, quello interno è il luogo in cui si dispongono e accordano le cose. Vagheggio un garde-robe, più ancora che un armarium, etimologia di origine bellica, al quale Benedetta si approssima per rinvenire la controparte fisica trascritta nella traccia fotografica. Codesta induzione mi è compagna nel riflettere sull’abitare inteso come avere cura, e ciò che è preso in custodia è messo al riparo (Heidegger 1954). Mi torna alla mente l’immagine di un cestello di metallo, di quelli usati un tempo per tenervi le uova o le verdure, che impalpabile galleggia nella bianca spaziatura della stampa fotografica. Benedetta mi mostra la traccia elaborata di questo oggetto, che raddensa anche in me ricordi, e lo pone a lato della serie dei guanti. L’associazione delle immagini in un tempo presente definisce e organizza lo spazio di un diverso ordinamento. La dimensione e l’accostamento rendono visibili la relazione tra le cose e l’intreccio modula il ritmo del testo fotografico. Vuotare in una cesta i frutti raccolti significa: preparare per loro questo luogo (Heidegger 1969). Benedetta principia la sua via sperimentale da un ordine che la precede e rende in qualche modo possibile il suo lavoro. Ci stupirebbe scorgere nel suo, nei nostri, garde-robe oggetti ammassati o gettati alla rinfusa, dacché questa incuria marcherebbe una insopprimibile debolezza nella funzione di abitare. Togliere nel momento presente l’abito dall’armadio è, dunque, un rinnovare, nel contesto biografico, il movimento della venuta al mondo (Muraro 1996). Da quell’ordine origina il potere evocativo dell’allitterazione. La fotografa sceglie di partire da sé – un sé esperienziale, non metafisico- come attraversamento che contiene uno staccarsi e prendere inizio, un separarsi e insieme originarsi. Il percorso è una verifica, in un senso certamente differente da quella della struttura del discorso fotografico compiuta da Mulas (Quintavalle 1973), che pure rimane anche per Benedetta un autorevole momento della ricerca contemporanea; Alfieri dimostra una passione per la concretezza delle cose, alternativa alla decostruzione postmoderna, la sua è verifica delle radici corporee del processo del pensiero, verifica del corpo materno come iscrizione dell’origine, verifica dell’atto fotografico. Questa complessa trama è intrecciata trasversalmente nella fluttuazione dalla fotografia dell’album familiare al ritrovamento del capo vestimentario indossato dalla persona ritratta. Il tramaglio del lavoro di Benedetta è, invero, una rete a tre ordini di maglie diversamente fitte. La genealogia di Generazioni è spaziata, intanto che la differenza dei materiali e delle fogge è riesaminata come dimensione relazionale. La silhouette, materia dell’abito incisa nel bianco, è la forma che assume il dislocarsi di una pratica restituita alla condivisione comune. L’assonanza e le associazioni visibili originano dalle tracce fisiche della esperienza vissuta per sottrarsi, pur significandola, alla frantumazione del sé. A Benedetta Alfieri è assegnato nel 2004 il Premio Nazionale di Fotografia Riccardo Pezza per l’opera Generazioni: il tema del premio è Il racconto di un luogo. La nozione di luogo, assurto a topos sia dell’esperienza fotografica sia del lavoro della critica, elaborata negli anni Settanta, riannodandosi alla centralità che assume in Heidegger l’abitare come orizzonte ontologico (Miodini 2002), assume nel percorso di Benedetta una peculiare declinazione che l’immagine della cesta o del garde-robe mi paiono tracciare. L’armadio, metafora del predisporre ed accogliere, è la nozione di luogo più distante che si possa pensare dal concetto di non-luogo pensato da Augé. Nel lavoro di Benedetta e di altri giovani autori partecipanti al premio individuato il congiungersi del luogo con la persona, del paesaggio con il corpo. Questo ultimo, come è noto, è campo di intersezione di forze materiali e simboliche. L’abito è reperto, tessuto di materia corporea, ma un filo tenace nella elaborazione di Benedetta è la dimensione relazione: da Ritratto di famiglia ad Album bianco la scelta di un capo rappresentativo si iscrive all’interno di una relazione. Benedetta, in tempo successivo, ritaglia l’abito fotografato dall’intreccio e lo immerge nel bianco: la decontestualizzazione è una pratica necessaria per restituire leggerezza, separarsi e insieme originarsi. L’approdo al bianco, ancor più quando scompare la gruccia, è nitido e terso rifiuto nei confronti della rappresentazione esteriore dell’oggetto, è riflessione sullo specifico del linguaggio fotografico. L’esito della spaziatura bianca introduce la dimensione della durata, l’affioramento di un silenzio in cui attutita apparire la icona dell’abito.
Il cambiamento di orizzonti è sotteso a tutte le notazioni di luogo: Benedetta è attenta a misurare la dislocazione nello spazio espositivo, le venti stampe appoggiate a terra di Ritratto di famiglia, le quattro stampe di Generazioni a grandezza naturale “appese” alla parete. Un nuove ordine assegnato con cura ed una percezione le cui forbici seguono il tracciato di una genealogia. Ecco che l’abito nuziale in Sorelle o Le tre Grazie segue un ordine cronologico: le Cariti rallegravano, da esse promanava quanto rende la vita piacevole e amabili i rapporti tra gli esseri umani, il loro abito è una cosa visibile, perfettamente definita, tuttavia si palesa intangibile, quasi impalpabile. In Album bianco del 2004/2005 i reperti dal passato ondeggiano all’interno di minuscoli telai bianchi, quasi fossero messaggi che fluttuano come aquiloni. Un’articolata installazione la cui messa in opera, per la concentrazione e ripetizione del gesto, si apparenta alla forma del mandala e che nella flessibilità e dislocazione degli elementi apparirà indubbiamente pari alle cascate di aquiloni di Hashimoto. Questo accordo tra le cose e gli spazi, tra la traccia fotografica dell’oggetto nella quale si inabissa la corporeità del ricordo e il luogo in cui l’agnizione dell’ordine simbolico avrà compartecipazione ha una geografia di rimandi che annovera sguardi d’oriente. Dal dramma collettivo rappresentato da Boltansky all’installazione di Yin Xiuzhen, dove in dieci tradizionali buxie sono inserite foto dell’artista in diverse età della vita, un abito scarlatto galleggia nell’acqua tal quale un cencio sfrangiato nella installazione dell’iraniana Sharafi.
Con quali abiti già confezionati vestiremo – o, meglio, la ragione vestirà – un oggetto nuovo? La metafora sartoriale di Bergson ha una accezione negativa, l’abito di confezione è per lui metafora della disindividualizzazione. L’habitus, modo di comportarsi o di essere, comporta ancora in Bergson la nozione retrospettiva di identità. L’abito trascritto in fotografia da Benedetta pare fatto su misura per l’identità nomade (proposta da Deleuze 1973 e ripensata da Braidotti 1994). L’identità nomade è un inventario di tracce, ha la capacità di memorizzare mappe impercettibili come il Marco Polo di Calvino (Braidotti 1994), può partire da sé e adoperarsi per la decostruzione dell’io. Infine orientarsi in un ordine simbolico e spazializzare, rendere silente la trama dell’ordito.
Parma, marzo 2005
© Lucia Miodini